Pubblicato sul numero 11 della Rivista Formazione IN Psicoterapia, Counselling, Fenomenologia.
E’ implicito comune che il nemico si combatte, che nemico significa quindi guerra.
Si tratta però di un assunto congruo piuttosto a civiltà primitive e espansionistiche, nelle quali le relazioni erano di alleanza o attacco, e dove solo le culture territorialmente molto distanziate, tipo Europa e Cina, potevano limitarsi ad avere scambi commerciali senza altre implicazioni. Si tratta in realtà di una posizione alquanto paranoica, dove l’aspettativa è mangiare o essere mangiato.
Oggi, anche se siamo politicamente abbastanza differenziati da poter concepire l’esistenza di Stati nemici con cui intratteniamo relazioni e a cui non facciamo guerra, è ancora difficile sul piano individuale considerare nemiche specifiche persone senza per questo mettere in atto operazioni aggressive che prima o poi non si convertano in belliche.
Il problema è grande, perché da una parte, le guerre costano tantissimo e sono in sostanza poco costruttive, anche se passionalmente molto coinvolgenti, dall’altra dove non è in atto una guerra è molto difficile riuscire a difendere il proprio territorio senza accordi esplicitati bilateralmente, cosa praticamente impossibile nella vita di tutti i giorni, dove dobbiamo accontentarci di usi e costumi condivisi molto all’incirca. In realtà, non volendo scendere in guerra, non di rado gli esseri umani si rassegnano a subire persone che attraversano la loro vita, permettendogli intromissioni implausibili in aree anche importanti[1].
Un esempio tipico sono le circostanze in cui, cortesia imponendo di rispondere, le persone si trovano obbligate a rispondere a domande non pertinenti, con conseguenze a volte emozionalmente devastanti.
Qui l’aggressione occulta sta nell’affermazione ipocrita che una persona onesta non nasconde nulla, e che la dimostrazione di questa onestà è la disponibilità a rispondere a qualsiasi domanda: ammesso e non concesso che questo possa essere vero per gli amici, non lo è sicuramente per i nemici, ai quali ovviamente nessun esercito rivelerebbe apertamente le sue strategie.
Si vede qui come il riconoscimento dell’inimicizia, malgrado l’assenza di una guerra dichiarata, permetta una scelta di comportamenti più congrua ai propri bisogni.
Questa congruenza permette fra l’altro una apertura all’altro realistica piuttosto che apparente, che è un po’ la differenza fra avere ospiti in casa e subire una perquisizione. Una differenza particolarmente importante nella pratica psicoterapeutica, dove si tratta sempre di essere in visita in casa di un altro: nel caso di una perquisizione, che è quando la persona si considera obbligata a lasciarlo entrare per ragioni di salute e non perché ne abbia voglia, lo psicoterapeuta potrà vedere solo la parte ufficiale del mondo interno della persona. La parte veramente privata risulta accessibile solo nel caso che questa abbia piacere di rivelarla, per un bisogno intrinseco alla relazione.
Chiedere che la persona dica tutto quello che le passa per la testa è una pretesa ingenua[2] e disfunzionale: è proprio nella selezione che fa del materiale interno che si rivela la sua specificità. L’alleanza fra terapeuta e paziente non deve e non può essere scontata: la persona del terapeuta non è aprioristicamente un alleato, e se lo è va scoperto attraverso l’esperienza. Il porsi pregiudizialmente dei terapeuti come alleati dei pazienti, è un’ipocrisia di ordine commerciale: avendo bisogno di guadagnare e non essendo disposti a rispettare i propri limiti, alcuni prendono in terapia anche persone di cui non sono alleate, o che addirittura disprezzano, pretendendo poi però che loro si fidino, e chiamando resistenze le loro legittime difese.
Amici, lontani, e nemici sono forse le tre categorie fondamentali in cui si possono riconoscere gli altri: se lontani è una categoria che non richiede prodromi, amici e nemici sono invece situazioni con precedenti storici. Per essere amici bisogna essersi “conquistati”, e ugualmente anche l’inimicizia si conquista.
Da un punto di vista etologico amicizia si identifica con alleanza, mentre sul piano umano amicizia richiede in genere più intimità di questo. Richiede però almeno alleanza, per cui quelli che non sono alleati non possono nemmeno essere considerati amici.
Ci sono persone troppo vicine per essere considerate semplicemente lontane, e troppo chiaramente mancanti di alleanza per essere considerate amiche. Senza essere nemici dichiarati in guerra dichiarata, si tratta comunque di nemici: nemici appunto senza guerra.
Come le amicizie vanno curate, anche le inimicizie vanno trattate con cura, se si vuole evitare che degenerino in guerre: bisogna tenere oculate distanze, che impediscano il degenerare degli attriti e il formarsi di conflitti di interessi che non permettano più una pacifica convivenza.
Una delle parole più significative a questo proposito, è l’avverbio insieme: fare cose insieme, nel linguaggio comune è spesso considerato positivo, o al massimo innocuo. In realtà significa spesso una rinuncia alla propria responsabilità nel fare, per una posizione in cui al posto di una dialettica si instaura una più meno radicale confluenza, una con-fusione senza incanto. Se è dubbio dunque il senso del fare cose insieme con alleati, è sicuramente letale fare cose insieme a nemici semplicemente perché non si è in una guerra dichiarata: fare qualcosa insieme con persone di cui non ci si fida rappresenta un suicidio del tutto ingiustificabile, anche quando non ci sono in gioco grandi interessi.
L’igiene mentale raccomanda dunque di non fare cose insieme con nemici, anche quando non ci sia guerra: la domanda è allora quali siano le alternative a insieme.
Per rispondere a questo bisogna prima chiarire in cosa consiste in pratica il fare le cose insieme. Per esempio, due impiegati dello stesso ufficio, due studenti della stessa classe, due operai della stessa fabbrica, non fanno le cose insieme: ognuno fa il suo in una situazione che unisce i risultati, e non c’è bisogno di “fare insieme” per ottenerli.
Il “fare insieme” richiede una unità di aspettative reciproche, che è quella che rende fragile chi condivide l’evento: anche solo fare una passeggiata con un amico comporta aspettative comuni, per lo meno la contentezza per la presenza dell’altro, e anche se poi la situazione può contingentemente cambiare, la prudenza richiederebbe di fare passeggiate solo con amici, o, nel caso contrario, di aspettarsi che le proprie aspettative vengano disattese, senza che questo comporti una ferita nel campo affettivo. In altre parole, se una persona non è ancora provatamente amica, trattarla come “nemica senza guerra” fino alla stabilirsi dell’alleanza.
Ma come si tratta una persona come “nemica senza guerra”? Come si trattano i nemici quando non si combattono? Si tratta evidentemente di come abitare la distanza con loro.
Quando per la strada davanti a casa passa un traffico veloce, qualunque mamma sa che è rischioso far uscire i bambini piccoli: allo stesso modo, nella distanza che c’è con i “nemici senza guerra” è rischioso far venir fuori le proprie parti infantili, cioè tutto quello che ha bisogno dell’occhio protettore dei genitori per poter sopravvivere. Non si fanno battute, o almeno non si fanno aspettandosi che l’altro rida; non si dicono cose a rischio, o almeno non aspettandosi che l’altro non critichi. Non ci si aspetta che l’altro riconosca gli spazi dovuti, e si difende il proprio senza farsi ostacolare dalla cortesia.
Non si offre insomma mai all’altro l’opportunità dei ferire e di prendere il sopravvento, e questo non è certo semplice quando si voglia mantenere un regime di cortesia. La conclusione quindi è inevitabile: con i “nemici senza guerra” non si può tenere una relazione di cortesia, e bisogna elaborare un altro tipo di atteggiamento, sempre rimanendo fuori del versate bellico.
La tradizione politica offre un esempio interessante, che è il servizio diplomatico: i “nemici senza guerra” vengono generalmente amministrati dal servizio diplomatico, e con un atteggiamento, appunto, diplomatico.
In genere tutti pensano di sapere cosa significa diplomazia, ma si tratta in realtà di una difficile professione per quanto riguarda il piano politico, e di un difficile atteggiamento per quello che riguarda le relazioni personali. Diplomazia significa infatti evitare qualunque occasione di scontro, anche quando si è dalla parte della ragione, e allo stesso tempo difendere almeno la propria dignità, se non il proprio orgoglio. Sembra facile, ma l’interlocutore che non è legato da alleanza reagisce spesso aggressivamente quando si difende il proprio spazio, e a questo punto per non farsi ferire e salvaguardare sè stessi si è costretti a vere e proprie acrobazie che non sempre riescono.
Naturalmente, meno si rischia e meno c’è da difendere, e la prudenza invita a una distanza abitata il meno possibile, e con il meno possibile di presenza personale.
Fermo restando la riduzione del rischio, il problema è comunque come evitare le occasioni di scontro. Per questo, non provocare e non farsi provocare è una necessità basilare.
Ora, come si fa a non farsi provocare? Gli inglesi, che sulla diplomazia la sanno lunga, usano parlare del tempo che fa, e fare osservazioni sul trascorrere delle stagioni, argomento provatamente a prova di rischio.
L’esperienza merita rispetto, e parlare del tempo e delle stagioni con i “nemici senza guerra” è certo consigliabile. Si possono condurre conversazioni lunghe e articolatissime a questo proposito, e se uno è abbastanza esperto può immettere anche elementi pittorici che migliorino la qualità del discorso, senza troppa esposizione personale. Anche volendo, l’interlocutore non potrà immettere qualcosa di provocatorio senza scendere nel ridicolo e neutralizzarsi quindi da solo.
L’argomento tempo svolge poi con un viaggio solo ben due servizi, perchè come impedisce di farsi provocare, evita anche di toccare tasti delicati per l’altro, e nel caso contrario, permette di esibire un pentimento sincero e pacificante.
Il problema diventa ben più grave quando si tratta di difendere il proprio spazio: difendersi senza accendere la miccia del conflitto è davvero complicato. Mettiamo, come è successo a un mio amico, di venire rimproverato perchè nel fare il moderatore in una tavola rotonda gli è capitato di esprimere la propria opinione sul tema dibattuto[3]: quale opzione potrebbe essere percorribile oltre a quella di aprire le ostilità? Ora, la differenza tra uno stipendiato e uno schiavo è che lo schiavo riceve solo vitto e alloggio, e può essere cacciato in qualunque momento: lo stipendiato per lo meno può mette soldi da parte, e ha quindi un minimo di autonomia. Praticamente, l’unico cammino altrimenti percorribile è quello di ricorrere a un cortese ma fermo disaccordo sull’opinione che l’interlocutore implicitamente esprime, in cui dare prova di magnanimità nell’accoglienza di un comportamento chiaramente discutibile, ma ratificato da una necessità democratica in cui è legittimo anche pensare che la luna è di formaggio.
Va da sè che dopo è opportuno ridurre al minimo i contatti, in caso contrario significa che uno se le cerca, e a questo proposito un detto popolare toscano dice “mal voluto non è mai troppo!”
[1] Nella cultura italiana, il personaggio della suocera ne è un esempio tradizionale.
[2] Anche se la persona volesse non potrebbe: il mondo interno si muove a una velocità maggiore della lingua, e anche se si volesse dire tutto quello che passa per la testa il tempo non basterebbe: si deve in ogni caso scegliere cosa dire e cosa lasciare da parte.
[3] Il poveretto, che non si aspettava minimamente l’attacco, e tantomeno il tono di condiscendenza con cui fu fatto, divenne bianco e quasi si sentì male, tanto che ebbi paura che gli venisse un infarto.
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